il sartù è uno dei piatti a base di riso  più ricchi ed elaborati della tradizionale cucina napoletana. Si presenta a forma di ciambellone e può essere condito con il ragù oppure in  bianco. All'interno ha generalmente un ripieno di polpettine, salsicce, piselli, funghi, uova sode, ecc..

 

 

LA VERA STORIA DEL SARTU’

 La gente di Napoli è incline al riso. Nell’accezione di “risata”, effettivamente il riso abbonda sulla bocca dei suoi abitanti.Se invece la parola “riso” la leggiamo nel suo significato di alimento, dobbiamo riconoscere che nei suoi confronti l’atteggiamento dei napoletani è stato sempre ambivalente. Alla fine del 1300, da “mangiafoglia”: consumatori di verdura, e segnatamente di cavolo – per necessità, non essendovi cibo altrettanto economico da mettere sotto i denti,- i napoletani stavano diventando un po’ alla volta “mangiamaccheroni”. Un appellativo assai più lusinghiero, al quale a tutt’oggi  non hanno alcuna intenzione di rinunciare.Più o meno nello stesso periodo, dunque alla fine del XIV secolo, era arrivato a Napoli un altro alimento: per l’appunto, il riso. Non da troppo lontano; dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli.La pasta ed il riso, giunte a Napoli per vie diverse (pur provenendo dallo stesso luogo: l’estremo Oriente), presero anche strade diverse. In verità, la pasta non ne prese alcuna: a Napoli si trovò benissimo, ed elesse la città partenopea a propria dimora ufficiale.Invece il riso a Napoli non si fermò più di tanto. In men che non si dica si spostò al Nord, evi si installò stabilmente. Perché là trovò l’acqua, indispensabile perla sua crescita, dicono alcuni; ma forse la verità è un’altra. E’ che a Napoli il riso non aveva avuto troppo successo. Sì, era un cibo nutriente, che dava un senso di sazietà, ed era relativamente poco costoso; ma i napoletani non ebbero mai per lui lo stesso feeling che stavano invece sperimentando per la pasta. Ne fanno fede i nomi che al riso venivano affibbiati, e che in parte gli sono  rimasti, a tanti secoli di distanza: “sciacquapanza” e “sciacquabudella”.A motivare questa diffidenza, che non di rado si tingeva di ostilità, sta il fatto che il riso sbarcato a Napoli con gli Aragonesi era un’assoluta novità,almeno per l’Italia, in quanto all’ impiego alimentare. Finora quel momento, il riso era stato utilizzato solo come medicamento, per malattie gastriche o intestinali. La schola medica salernitana (Salerno è a un tiro di schioppo da Napoli)  consigliava il riso in tutte le salse, anzi in nessuna (veniva infatti prescritto rigorosamente in bianco).A Napoli, in quel periodo, le malattie infettive trascorrevano il  tempo fra endemia ed epidemia; e in molti casi (si pensi al colera) il riso era l’unico alimento consigliato, e consigliabile. Il riso Purificatore veniva insomma associato a condizioni di salute precarie, sulle quali non c’era niente da ridere.E’ probabilmente per questo motivo che i napoletani non si strapparono i capelli  quando il riso, pur avendo avuto Napoli come prima destinazione, scelse di stabilirsi in Lombardia, in Piemonte e in Veneto. I napoletani ignoravano però che, come gli emigranti che fanno fortuna lontano dal luogo da cui sono partiti, il riso un giorno sarebbe tornato. E che loro stessi lo avrebbero accolto con tutti glionori. E gli odori.Ma il riso si rivelò piuttosto furbo: non tornò infatti così com’era partito, nudo e crudo. Tornò cotto, e sottomentite spoglie. Per dir meglio, in abiti diversi. Assai più ricchi, e più belli.Se gli artefici dell’arrivo del riso a Napoli furono gli Spagnoli, i protagonisti del suo ritorno furono invece i Francesi. Per il tramite dei loro cuochi.Nel 700,erano loro, i cuochi francesi, a regnare su Napoli. I nobili,che vivevano nei palazzi del Centro Storico e di Monte di Dio, nella adiacenze di Palazzo Reale, in quel periodo per apparire chic, parlavano francese, e nella stessa lingua mangiavano. I loro cuochi (sia quelli autenticamente francesi,  sia quelli napoletani, che si erano comunque impratichiti nella cucina d’Oltralpe) erano chiamati, in un francese napoletanizzato,  “Monsù” (da “Monsieur”.)Questi poveri cuochi dovevano scontrarsi quotidianamente con l’idiosincrasia dei loro padroni …nei confronti del riso, che invece in Francia andava alla grande. Un’avversione (ma forse si potrebbe definire meglio un non-amore: un’indifferenza) che andava avanti da secoli.Cosa pensarono allora di fare, i Monsù?Si mobilitarono per nobilitare il riso. Per renderlo più gradevole ai palati partenopei.Per cominciare, ci misero dentro della salsa “c’a pummarola”: il pomodoro, a quei tempi, a Napoliera già una sorta di passepartout, un viatico. Questo però non poteva bastare: anche se rosso, il riso restava uno sciacquapanza. I Monsù decisero perciò di  arricchirlo con melanzane fritte, polpettine e piselli. Tutte queste prelibatezze le piazzarono sopra il  riso, a guarnizione: come specchietto per le allodole.In cima a tutto: in francese, “sur-tout”.Da “sur-tout” a “sartù” non c’è che lo spazio di un sospiro, e il tempo necessario ad emetterlo. Poi la bocca sarà occupata in (sar)tutt’altro .I loro padroni, i nobili napoletani,fecero da cavie a questo “nuovo” piatto. E mostrarono di gradire il sartù quanto avevano disdegnato il riso: vale a dire, moltissimo. Un po’ per volta il sartù, pur rimanendo sulle tavole dei ricchi, passò pure su quelle dei poveri. Diventando, come molti cibi, a Napoli e altrove, una splendida metafora dell’egualitarismo. A conferma che la legge (della buona cucina) è uguale per tutti.

 
 

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